Semi di nonviolenza

Siamo quasi 7 miliardi su questo pianeta. Un ritmo di crescita demografica che, negli ultimi cento anni, ha subito un’accelerazione esponenziale. Abitiamo su un unico pianeta eppure, in un crescendo di possibili interconnessioni, noi esseri umani abbiamo creato tanti mondi divisi, serrati, blindati.  Vogliamo allargare lo sguardo e riconoscere l’esistenza di tutti gli esseri umani, diversi eppure uguali. Vogliamo eliminare le barriere generate dal possesso o dall’incapacità di trovare un linguaggio comune. Osserviamo la violenza, lo sfruttamento, lo spreco e la sopraffazione, non solo al di fuori o distante, anche dentro. È nostro intento cercare un collegamento: vogliamo vivere al di là delle discriminazioni, conoscendoci, scambiando e mettendo a disposizione di tutti i talenti di ognuno. Vogliamo smettere di fare la guerra, vogliamo invertire la rotta, cambiare direzione, e lo vogliamo fare insieme, perchè a sognare da soli son tutti bravi.

Il laboratorio sperimentale di Comunicazione Empatica per bambini è cominciato all’interno dei sotterranei di una Chiesa, nel ricco e movimentato centro di Torino. Attraversando lunghi corridoi, scale e molte porte siamo arrivate nello spazio dedicato ai nostri incontri: una saletta senza finestre, ma calda e con molte potenzialità. Arredamento semplice e funzionale: tavoli e sedie robuste di plastica senza braccioli, un piccolo lavandino dietro un muretto e pareti fresche di pittura grigia.

Ci aspettavamo un gruppo di bambini omogeneo per età, ed invece – con immensa sorpresa – ne sono arrivati una quindicina dai 6 ai 14 anni. Ci siamo guardate in faccia un po’ spaventate, ma con un sorriso complice, senza dirci una parola, abbiamo deciso di procedere senza soffermarci, includendo le naturali differenze anagrafiche, linguistiche e culturali.

Dopo che i genitori e i volontari del Centro sono andati via, ci siamo seduti tutti in cerchio per terra. Circolarità che per noi ha un valore: poterci guardare negli occhi senza gerarchie o divisioni, dove ognuno occupa un posto particolare, unico e fondamentale. Stare in cerchio significa scoprire le proprie potenzialità e metterle al servizio di una collettività più estesa. Questo bagaglio di significato ai bambini non serve spiegarlo, lo si vive, insieme e man mano.

Dopo la nostra presentazione, guardandoci intorno abbiamo chiesto: “Secondo voi chi siamo?” e subito la voce spontanea di H.: “Ma siamo un gruppo di persone!!!”, con un tono che ne sottolineava l’ovvietà. “Certo! Evviva! Si, siamo un gruppo di persone!”. La risposta più semplice e naturale del mondo. Da quel momento è iniziato un viaggio di scoperta, l’avventura di vivere l’incontro fra mondi diversi, prima di tutto fra loro, ma anche quello di due adulte entusiaste e curiose che consapevolmente hanno scelto di prendersi cura di un gruppo di persone speciali: minori che vivono in condizioni poco umane. Situazioni fragili, famiglie e contesti sociali che trasudano ingiustizie e disagi da tutti i pori.

Il nostro intento profondo? Poter trascorrere con loro un tempo diverso. Un tempo di gioco, in cui sperimentare un linguaggio nuovo. Senza violenza. Concedendo spazio e attenzione, con la curiosità sincera di scoprire chi abbiamo davanti. Persone, giovani esseri umani che Esistono, imparano e vivono esattamente con noi, in questo presente.

La finalità del progetto era quella di permettere ai bambini di apprendere un nuovo modo di interagire con se stessi e con gli altri grazie a modalità relazionali empatiche e attraverso la costruzione del gruppo.

Ci siamo servite di ciò che andava accadendo tra un gioco ed un altro, delle dinamiche di gruppo che venivano di volta in volta a galla.

Uno dei primi giorni, mentre facevamo il gioco del gomitolo tutti in cerchio, il piccolo Y. è diventato paonazzo. Si avvertiva il suo fastidio, il suo imbarazzo, la sua rabbia. Due ragazzini più grandi lo stavano prendendo in giro e lui, battendo un piede a terra ha iniziato a manifestare la tutta la sua irritazione. Una crisi annunciata sulla soglia. Abbiamo prestato attenzione a quanto stava accadendo, e con empatia gli abbiamo chiesto se il suo desiderio fosse di avere silenzio da parte del gruppo quando toccasse a lui di parlare e presentarsi. Sì. Era questo ciò di cui aveva bisogno, e vederlo riconosciuto gli ha consentito di cambiare espressione, diminuendo quella tensione prima in crescendo. Così abbiamo chiesto agli altri di contribuire al bisogno di Y. “Possiamo soddisfare questo suo desiderio? Riusciamo a stare in silenzio senza ridere quando è il suo turno di presentarsi?”, “Si”, “Benissimo!“. Sventata l’eventualità della lite senza reprimere la rabbia, sperimentando il potere dell’ascolto e dell’intenzione di connettersi agli altri.

Un’altra occasione si è presentata poco dopo, con la nostra richiesta di trovare una parola chiave che fungesse da timeout per chiunque ne avesse bisogno. Bastava pronunciarla per avere la possibilità di interrompere l’attività e trascorrere un momento con noi in privato. Abbiamo proposto la parola “cane”, che suscitando le loro risate, ha convinto tutti. Tutti tranne S., 11 anni, che si è chiuso nei confronti del gruppo mettendosi con le braccia conserte e il capo chino. Non potevamo andare avanti senza la sua partecipazione, volevamo che la parola scelta fosse condivisa, così abbiamo frenato il gruppo portando l’attenzione sul suo dissenso. “Ragazzi, S. non è d’accordo con la parola ‘cane’”. Questa interruzione ed attenzione inaspettate hanno destato in lui lo stupore di essere visto. E la domanda successiva l’ha spiazzato: “Quindi tu cosa proponi?” Ci ha pensato un po’ ed ha suggerito la parola “autobus”. “Siamo tutti d’accordo?” “No..!” A quel punto è nato un gioco nel gioco, uno scherzare tutti insieme in un’atmosfera festosa. Siamo andati avanti finché non abbiamo trovato la parola: “Patatine fritte”, che piacciono a tutti, compreso S.

Durante questa avventura abbiamo fatto attenzione ad utilizzare un approccio nonviolento, che andasse oltre i concetti di giusto e sbagliato, torto o ragione, premio e punizione. In ogni attività proposta l’obiettivo di fondo era quello di favorire la realizzazione di un’opera o di un lavoro comune. Senza graduatorie, senza medaglie né premi, meriti o difetti. Ciò non vuol dire che trascurassimo di intervenire qualora dei comportamenti creassero confusione o frustrazione, facendolo però attraverso lo strumento della Comunicazione Empatica. In quelle occasioni abbiamo trovato risposte naturali di scuse sentite e di volontà di cambiamento, ma anche e soprattutto lo stupore di non essere sgridati. C. ad esempio, 8 anni, un giorno ha iniziato a correre con in testa il berretto sottratto a R., 13 anni, la quale lo rincorreva  infastidita. Abbiamo prestato attenzione alla scena ed ascoltato che cosa ciascuno di loro avesse da dire. Lei voleva riavere il suo cappello. S., mortificato, ha risposto  che non sapeva di non poterlo prendere. Abbiamo disteso gli animi dicendo che non era successo niente di grave e che c’era stata soltanto un’incomprensione. “Va bene, fermiamo tutto e vediamo che cosa sta succedendo”. Anche in quel momento era come se si aspettassero un castigo. Siamo invece entrate nell’ascolto dei bisogni di ognuno con molta naturalezza, di fronte a tutti gli altri. “R., se ho capito bene, quello che ti ha dato davvero fastidio è che S. abbia preso il tuo cappello senza chiedertelo, è corretto? Avresti voluto che te lo chiedesse?” “Sì.” Il riconoscimento del bisogno naturale di essere vista e rispettata ha fatto sì che la sua ira si trasformasse completamente. Abbiamo allora domandato a S. se avesse capito quello che R. voleva dire, chiedendogli poi: “La prossima volta che vuoi prendere le cose di qualcun altro, ti andrebbe di chiedere prima il permesso?”, “Sì certo! Ho capito”.

Accettando profondamente, comprendendo la situazione e la vicinanza che si può creare attraverso la comunicazione, si raggiunge un’intesa in modo molto semplice e spontaneo. Non si tratta di insegnare delle regole, bensì di far fare esperienza diretta della bellezza del rispetto di sè e degli altri.

Verso la fine di uno degli incontri, stavamo preparando un cartellone da attaccare fuori dalla porta, con dei disegni e delle scritte (in italiano, arabo, francese, rumeno…) che indicassero la nostra presenza in aula; un invito, a chi lo leggeva, a bussare in un modo originale da loro ideato (3 tocchi veloci, una pausa e un tocco lento). Una semplice attività di gruppo per realizzare insieme qualcosa di condiviso. Ciascuno era libero di fare la propria parte sul cartellone, di scrivere un messaggio personale esprimendo la propria creatività. Ci siamo accorte che M., 6 anni, era bloccato: mentre quasi tutti stavano scrivendo, lui aveva difficoltà nel farlo. Gli abbiamo proposto di disegnare, sostenendolo in modo da non fargli vivere un senso di esclusione, ovvero scoprendo insieme a lui quale potesse essere il suo contributo al cartellone. In modo spontaneo e non pilotato, le compagne più grandi hanno guardato la porta che stava tracciando ed hanno risposto con un vivace “Che beeeellaaa!”, in modo naturale, senza forzature, strategie o secondi fini. È stato straordinario come sia cambiato non soltanto lui, ma anche l’atteggiamento e l’atmosfera di tutto il gruppo: si è manifestata una sincera volontà di sostenersi reciprocamente. Hanno così rinforzato una differenza – che poteva trasformarsi in una debolezza – incoraggiando e rafforzando il gruppo stesso. In sintesi, una difficoltà come tante altre che ha rappresentato un’occasione di crescita e di unione.

Il buio di S. è emerso durante il primo incontro. Si è mostrato al gruppo ed è stato accolto. Lo abbiamo visto e riconosciuto interiormente. A livello energetico ciò è stato trasmesso a tutti i partecipanti attraverso l’esempio. Il suo essere oppositivo si è manifestato altre volte. Come quando di fronte ad una delle nostre proposte che richiedevano l’approvazione da parte dell’intero gruppo, se ne stava in silenzio con le braccia conserte. Lo abbiamo accolto così com’era, gli abbiamo detto che la sua risposta era importante e allora, con naturalezza tutti si sono girati verso di lui intonando un “Daiiii, ti pregooo!”. Lui li ha guardati, ha trattenuto per un attimo il respiro, ed espirando si è lasciato cadere in ginocchio, riprendendo poi fiato con una voce dolce e sottile e pronunciando un impercettibile ”Si”. È partito un applauso entusiasta, chiassoso, una festa improvvisa di mani con un suono che celebrava il traguardo del fare tutti insieme giocando. Un momento che ci rimarrà per sempre nel cuore, un sorriso scolpito all’interno di un ricordo felice. Da quel momento in S. qualcosa è cambiato: la sorpresa dell’inclusione ha fatto sì che il buio lasciasse spazio ad un’incredibile varietà di colori e luci nuove.

Con un gruppo di età mista abbiamo percorso varie strade per poter trasmettere la comunicazione nonviolenta in modo naturale ed informale, attraverso il gioco. Estrarre carte con volti di donne, uomini, bambini e anziani di etnie e culture diverse ha dato a tutti l’opportunità di sperimentare una modalità alternativa di osservazione e di cimentarsi nell’immaginazione di quali emozioni stessero provando. Una panoramica ed un confronto tra esseri umani che stavano vivendo emozioni diverse, ma accomunati dagli stessi bisogni. È stato sorprendente sentire come al termine del percorso, l’alfabeto emotivo si sia arricchito. La risposta alla domanda “Come vi sentite?”, rivolta a ciascuno individualmente e che sin dal primo giorno apriva gli incontri, si è piano piano trasformata da un quasi automatico “felice” ad un più ricco e variegato ”divertito, giocoso, stanco, energico”. L’importanza di ascoltarsi, per poter ascoltare l’altro e la possibilità di essere autentici essendo accolti nella nostra vulnerabile umanità

È come se i semi piantati durante il percorso fossero germogliati, segnando il passaggio improvviso dall’inverno alla primavera.

Esperienza di una bellezza sorprendente.